Un’altra storia per questa città

Cercavo un’altra storia per questa città. Il disorientamento della luce accecante, dopo tanti anni vissuti a Venezia, aveva perso il suo iniziale fascino. Non avevo capito subito di cosa si trattasse. Percorrendo in bicicletta Via Po verso la Gran Madre, presto, al mattino, era stata innanzitutto una sensazione fisica a colpirmi. C’era qualcosa di molto diverso nell’esperienza della città che fino ad allora avevo vissuto. Capii dopo, il sole investiva i suoi abitanti nei canali delle strade, delle enormi quinte, anelanti alla perfezione, la sua luce piana distesa su ogni cosa…e lo scarto netto dell’oscurità, come segreta compagna. Forse ho percorso più spesso le strade nell’oscurità, prima di domandarmi se ci fossero state altre forme, altri spazi da cui questa struttura aveva scavato i propri viali, le proprie scene. Non ricordo se visitai prima il Museo Archeologico o le rovine della città di Industria. Nella mia memoria i due luoghi sono sovrapposti, anche se così diversi. Ma ricordo che al Museo Archeologico cercavo anche qualcos’altro, che mi portò a visitarne una parte all’epoca inaccessibile, una riproduzione di Kairos.

chi se’ tu, che non par donna mortale,

di tanta grazia il ciel t’adorna e dota?

Poiché non posi? E perché a’ piedi hai l’ale?

Niccolò Macchiavelli, Dell’occasione

A Filippo De’ Nerli

Avevo passato diversi giorni collezionando immagini di Kairos. Nella rete le immagini si mescolavano alle più bizzarre interpretazioni del nome. Un uovo, una cassettiera, clessidre, la serratura di una porta, un caminetto, una tenda, uno scaldabagno. Come in un grande magazzino, il nome rincorreva le cose nelle rappresentazioni in rimandi infiniti, ciascuna cosa poteva stare al posto dell’altra in uno spazio in cui si crede di poter trovare qualsiasi e ogni cosa. In questa vertigine però ciò che si cerca rimane ben nascosto. Quando arrivai a dover mettere la didascalia sotto alle immagini che avevo trovato, nel bazar infinito nessuna delle indicazioni era presente: quando c’era il nome mancava l’immagine, quando l’immagine il nome. Finché scoprii che proprio il Museo Archeologico di Torino conservava un’antica rappresentazione di Kairos, circa del II a.C., forse copia del modello lisippeo.

E tu chi sei? – Il Momento, signore di ogni cosa.

Lungo la statale il cartello giallo con l’indicazione al sito era quasi nascosto, svoltando nella stradina laterale tirai dritto e dovetti tornare indietro fino a capire che la cancellata di metallo che si apriva fra il filare di alberi era l’ingresso. Un uomo sulla sessantina mi venne incontro. Mi diede in mano dei fogli con alcune indicazioni sulla storia di Industria, ma preferii passeggiare senza mappa, seguendo gli occhi col passo. La giornata era torrida, le zanzare non aspettavano per banchettare le ore del tramonto e subito le mie gambe divennero un campo di battaglia. Mi apprestai a intraprendere quel gioco che avevo imparato per la prima volta ai Fori Imperiali studiando storia dell’architettura: elevare le pietre affioranti dal terreno e provare ad ascoltare quali suoni, quali voci potevano emergere insieme a quelle pietre. Lo scorrere dell’acqua negli scoli lungo la strada, voci indistinte dalle mura delle botteghe, il suono di qualche attrezzo. Era lontana però l’intensità percepita a Pompei, nell’eco di Arria Marcella. Ma quando sulla sinistra si aprirono gli spazi dedicati ai templi ogni rumore si azzittì. Non era un silenzio sacro, piuttosto quello dell’oblio. Mi lasciai distrarre dalle impronte di due minute mani su un mattone, mi voltai e vidi al di là della rete che cingeva l’area archeologica una pila di sassi levigati, mi girai di nuovo e i templi erano ancora lì a interrogarmi. Seguii il perimetro degli edifici e in breve mi ritrovai al punto di partenza. Ora il custode mi diceva che da lì a un’ora sarebbe venuta una responsabile a tenere una visita guidata e che era un’occasione speciale, da non perdere. Gli risposi che le mie gambe erano ormai un colabrodo e che se avessi trovato lì intorno una farmacia sarei sicuramente tornata. Disse che avrebbe volentieri preso un antizanzare da casa sua, indicando un’abitazione a ridosso del sito, ma che proprio non poteva allontanarsi e aggiunse che mi avrebbe aspettato per la visita. Quel giorno non tornai a Industria, ma andai a cercare alcuni pezzi che scavati dal sito la storia aveva sparpagliato stranamente lì intorno. Di Industria rimase vivido il silenzio di quegli spazi sacri e la curiosa e solitaria figura del custode di quelle pietre, l’erba e gli arbusti che avanzavano sul terreno, e le zanzare.

«Scusi posso farle una domanda?» chiesi al signore che uscito velocemente dalla macchina si stava rintanando nella porticina antistante la fontana. «Dipende dalla domanda». «Riguarda la fontana. Sa se per caso è quella che apparteneva al tempio dell’area archeologica di Industria?» «Non lo so, ma se se la vuole portare via mi fa un favore». Rispose l’uomo chiudendo l’uscio dietro di sé. La fontana, murata in un parallelepipedo di cemento, muta anche lei, non pareva disturbare quel luogo, anzi, di traverso rispetto alla stradina accanto a cui era stata abbandonata era difficile persino notarla. Il leoncino dalla cui bocca usciva il rubinetto in via Capello a Monteu da Po, da lungo tempo sembrava aver dimenticato il suo ruggito.

Da Via XX Settembre dovetti tornare alla Piazzetta Reale per acquistare il biglietto d’entrata al Museo Archeologico. Dovetti però attraversare Palazzo Reale, perdendomi nell’affollata Galleria Sabauda prima di riuscire a trovare l’ingresso deserto del museo. Già scendendo le scale sembrava di accedere a degli archivi dimenticati e il contrasto con la massa di turisti ai piani superiori accentuava la sensazione di varcare uno spazio sul limite della rovina. Nessuno mi chiese il biglietto tanto che percorsi le prime tre o quattro sale pensando di aver varcato una soglia proibita. Non vi era dubbio che fossi al Museo Archeologico e che il passato recente dei Savoia anche qui funzionasse come asse temporale: siamo nell’epoca a.S., se non altro perché lo stesso Museo di Antichità, come spesso è accaduto, non è che una recente riformulazione delle collezioni regie. Come uscire da questa storia? Mi chiesi nuovamente. Eppure alcuni resti, come intrappolati in un racconto, si sentiva che debolmente indicavano verso un altrove. Ricordo la gioia, o la sorpresa nel vedere l’immagine della pavimentazione romana a mosaico che emergeva dalla cornice in cemento. Il semplice scarto temporale, privo di qualsiasi considerazione di altro genere, era stato sufficiente a creare una sorta di piccola scintilla, la libertà di poter immaginare un altro percorso. Avanzando attraverso le sale mi imbattei in una di quelle figure che controllano che i visitatori non lascino le proprie impronte sugli oggetti, un mestiere a me noto. Gli chiesi subito se sapeva dove si trovava il rilievo di Kairos. Mi disse di aspettare e chiamò con la radiolina, uscendo attraverso una porta lì accanto. Aspettai una decina di minuti, finché non arrivò un altro signore e mi fece qualche domanda. La prima ricordo era se lavorassi per la Soprintendenza. Dissi di no, la mia era curiosità, gli raccontai anche di Industria e che stavo cercando di contattare il soprintendente io stessa per porgli alcune domande. «La accompagno» mi disse «l’ala dove si trova il rilievo è chiusa al pubblico, ma visto il suo interesse la accompagno». Attraversammo a passo sostenuto le sale. Gli oggetti nelle teche scorrevano velocemente davanti ai miei occhi come tanti appuntamenti mancati in attesa di essere riafferrati, tutti insieme, senza alcuna gerarchia se non quella dettata da Kairos. «Questa parte del museo è chiusa, ci sono dei lavori di restauro da fare». Mentre parla guardo oltre le finestre e in mezzo all’erba alta alcune rovine si mostrano a commento, non a conferma, delle sue parole.

G. mi mostra un libretto di oracoli scritto in spagnolo: scegli una domanda.

30. Sarò felice?

La combinazione manca nelle risposte.

Forse la domanda è malposta. È possibile che la felicità esista solo al presente?

32 Come sarà il mio avvenire?

Sempre il futuro, la domanda.

Senti troppo la mancanza del passato.

Su quelle rovine si era impressionata l’immagine delle sagome dei ragazzi che cercavano di scavalcare la cancellata del museo durante un corteo a Torino. Intrappolati dalla polizia in Via 20 Settembre qualcuno si era aggrappato alle inferriate. Per un attimo avevo immaginato le sale del museo animate da una folla di fuggiaschi e poi abitate diversamente. Quel giorno al museo eravamo solo io e il custode. «Faccia pure delle fotografie se vuole», mi disse davanti al piccolo rilievo. Così anch’esso intrappolato, in una teca, rimanemmo in muto dialogo, non erano le immagini a mancare, non la presenza, uno di fronte all’altro erano le parole che non trovavano respiro. Sarei voluta restare ancora a lungo, ma il custode mi disse che se volevo vedere le sale del museo che avevamo attraversato di corsa bisognava tornare indietro. Salutai Kairos chiedendomi se avrebbe avuto senso sperare in un secondo incontro.

L’immensa sala in cui si trovavano gli oggetti trasferiti dal sito di Industria era dominata dal bianco e dal vetro delle teche. Le scure tonalità dei bronzi, di cui erano composte la maggior parte dei reperti erano accentuate dal contrasto con la luminosità dello spazio. La cosa che mi colpì di più però erano le annotazioni sulle didascalie, molti dei reperti erano segnalati come falsi. La storia, nel museo, aveva riaperto lo spazio all’inautentico, senza chiedersi forse quale ombra esso gettasse sul tutti gli altri oggetti. Non erano poi tutti in attesa di un’altra verità che li illuminasse e li rigettasse poi, per quello che erano stati, nell’oscurità. Di nuovo luci e ombre, ma c’era bisogno dei chiaroscuri…I piccoli bronzi nelle teche allontanati dal sito di Industria non trovavano collocazione, una nuova vita nella mia immaginazione, se non quella dei viaggi che avevano fatto per arrivare fino a lì, a partire dal primo lungo il fiume che li aveva trasportati fino al vecchio porto di Industria. La confluenza fra la Dora Baltea e il Po, intorno a cui Industria si era sviluppata, era uno snodo importante per il trasporto di materiali e di merci, Ma che volti potevano avere coloro che avevano dato forma a quegli oggetti? Che mani li avevano lavorati? Che luce, quali odori avevano accompagnato il loro sostare nello spazio, in quelle stanze accennate che avevo intravisto nel sito? Non era il tentativo di ricostruire il passato ma di percepire uno scarto che non fosse solo silenzio. La folla fuori dal museo trascinò via tutti quei pensieri, lasciando vivida solo l’immagine di Kairos e l’angolo di giardino ritagliato nella finestra.

Il Conte Morra era stato l’iniziatore della campagna di scavi nell’area da cui sarebbe riaffiorata parte, una piccola parte dell’antica città. Un articolo scritto di recente lo avrebbe ricordato e consacrato come dilettante, sottolineando un carattere piuttosto che avventuriero, come la maggior parte degli archeologi viaggiatori, non professionale e aggiungendo un ulteriore dubbiosa nota intorno alle vicende legate a Industria. Il nome dell’antica città e il passato recente di Torino non possono però far altrimenti che rievocarsi. Anche in questo caso, non essendosi la storia trasformata in un battuto percorso turistico, materiali e fonti sul Conte Morra non sono facilmente reperibili. Ma una sua antica residenza, il Castello di Lauriano, pareva essere ancora presente. Ancora una volta decido di seguire le tracce lasciate dalle pietre e mi ritrovo a Lauriano in cerca del castello. Il paese è molto piccolo e anch’esso, come Monteu da Po, si sviluppa ai piedi delle colline lungo il Po, accanto alla statale. Non faccio in tempo ad attraversare Lauriano che subito le mura del castello si affacciano a chiuderne la strada principale. Seguo con la macchina le mura che si perdono poi un un boschetto che cinge le spalle del paese. Ripercorro a piedi il medesimo cammino fatto in macchina seguendo la stradina che si allunga nel bosco. Le mura sono un meraviglioso tessuto di rampicanti e mutazioni che dal verde vanno al rosso dei mattoni, fino al cancello principale che appare fra le crepe di un tamponamento costruito per impedirne l’accesso. Il tronco di un albero lo attraversa in diagonale, si è fatto strada fra le sbarre del cancello e il tamponamento e ora punta verso il cielo. La neve attutisce il tono spesso lugubre dei luoghi abbandonati, accompagnando la lenta e vivace forza del verde. Pochi metri dopo il cancello, il muro di cinta con una linea a quarantacinque gradi si interrompe e si apre al di là un giardino. Mi inoltro fra gli alberi, alcuni caduti, finché l’edificio è a pochi metri. Molti scuri sono aperti, come anche la porta principale di fronte a me.

[continua]