L’estratto che abbiamo appena visto è tratto dalla sequenza iniziale del film «L’ordre» [l’ordine, la disposizione] del regista Jean-Daniel Pollet girato nel 1973 quasi interamente nell’ex lebbrosario (attivo dal 1903 al 1953) dell’isola greca di Spinalonga, parte dell’arcipelago di Creta. Nel 1973 l’isola non è più da venti anni lebbrosario e il regista ricostruisce la storia di una struttura di contenimento a partire dal suo abbandono, gradatamente e per intervalli passando da una contemporaneità, quella del regista, ad un tempo passato e rivolgendo poi lo sguardo verso un possibile tempo a venire. La sequenza iniziale si apre come abbiamo visto con un ingresso, un particolare accesso al luogo che non definirei né una soggettiva, né un vero e proprio carrello, ma un movimento che vibra far queste due possibili modalità di dar forma ad un luogo nel suo attraversamento. I movimenti fluidi, ma in maniera irregolare sono poi intervallati da piccole e più veloci sequenze dove si aprono altri squarci dello spazio che andremo a percorrere.
Il titolo di questo laboratorio è indicato sul programma con il nome di «tecniche audio/video» e come sottotitolo è stato assegnato invece quello di «Andature e gestualità». Ci soffermeremo in maniera specifica sul camminare, anche se avremo modo di vedere come questa forma di movimento non sia affatto semplice. Abbiamo visto già nella piccola sequenza come il camminare sia qualcosa di molto più ampio in grado di dar forma sia alla nostra quotidianità, che -in maniera differente- cinematograficamente ad un luogo e a situazioni.
Altro appunto è che gli esempi che mostrerò durante questa presentazione sono esposti per poterci aprire a immaginare quale sia la forma del nostro attraversamento dello spazio, lo sforzo che dobbiamo fare è quindi quello non di cercare una forma esemplare, che a mio avviso può invece prender forma prevalentemente da qui, cioè da questo spazio e da questo lavoro collettivo, ma delle suggestioni.
Il camminare fa parte di quelle azioni, o di quei movimenti che segnano un particolare momento di passaggio nella nostra infanzia e questo momento è quello dell’imparare, dell’apprendere, del cominciare a. Questo significa che come infiniti altri movimenti e come anche nel linguaggio è qualcosa che non possediamo dalla nascita, ma che in qualche modo iniziamo ad assumere da un certo momento in poi della nostra vita. Piuttosto che iniziare offrendo una possibile definizione di questo movimento è così che vi propongo di avvicinarvisi, come nell’infanzia e questo perché se da un lato è pur vero che anche adesso è possibile problematizzare la forma di abitudine che abbiamo assunto nel tempo nel camminare, dall’altro ciò su cui oggi ci vogliamo soffermare è l’apprendere a camminare nelle immagini-in-movimento.
Un altro modo di poter intendere l’approccio che qui propongo è in assonanza con l’operazione che la Cinemateca francese ha condotto nell’opera di restauro o meglio ancora di traduzione delle fotografie di Étienne-Jules Marey (o ancora nella resa cinematografica delle fotografie di Muybridge), ovvero riflettendo sulla temporalità delle immagini accorgersi della necessità di un ritmo a scansione più lenta, o quantomeno accorgersi della necessità di mettere in questione differenti scansioni temporali.
La strada per superare il quadro di un micro-dramma, di una micro-sociologia. Da dove viene questa liberazione di linguaggio nella e attraverso la strada? I divieti spariscono, tutto ciò che era legato al focolare, alla dimora, alla scuola, al tempio. Come se le parole pronunciate all’interno di una dimora rischiassero di rimanervi e di comprometterla, come se le dispute a porte chiuse rischiassero di prendere improvvisamente un’andatura drammatica e intollerabile […]. Fuori, non saranno più mariti, spose o figli ma uomini e donne che parlano a viva voce, allo stesso modo in cui respiriamo, camminiamo, digeriamo. [Poetica della città, Pierre Sansot, Klincksieck, 1971, p. 177]
In questo piccolo passo di Sansot è credo evidente per tutti una dissonanza molto forte rispetto a ciò che ci è in realtà di fronte nella nostra quotidiana esperienza della strada e del nostro rapporto con essa, una dissonanza che trovo in qualche modo vicina, anche se non del tutto identica nel riflettere sul modo in cui impariamo a camminare, ovvero per imitazione -qualcuno ha scritto un’eccellente forma di imitazione- e su un piccolo passo del testo di Honoré de Balzac intitolato «La teoria dell’andatura» [Théorie de la démarche, 1883] nel quale lo scrittore menziona la camminata come fisionomia del nostro corpo. La fisionomia (etimologicamente il conoscere la natura) può essere definita come un modo di mettere insieme aspetti e forme caratterizzando un tipo, ovvero distinguendo una natura. Com’è possibile, detto altrimenti, che qualcosa che impariamo replicando, ripetendo, imitando una molteplicità di movimenti diventi allo stesso tempo qualcosa attraverso cui veniamo identificati? E allo stesso tempo, ma diversamente com’è possibile che qualcosa di cui singolarmente ci appropriamo sia simultaneamente qualcosa che ci mette in comune con una molteplicità di altre singolarità?
Il camminare è una forma di movimento che potenzialmente è aperta alla trasformazione, alla moltiplicazione, alla simulazione o più poeticamente alla teatralizzazione, ma è anche una forma di movimento che nel tempo è stata incorporata in tecniche discipline e forme di governo del corpo. ***
Oggi assistiamo come cento anni fa all’utilizzo, anche se in maniera profondamente diversa, di tecniche di registrazione, o meglio ancora di codificazione che informano questa particolare specie del movimento.
Spot Vicon telecamere e sistemi informatici modello T-series
Ho scelto di mostrarvi questo spot in particolare della Vicon, una casa di produzione di telecamere e sistemi informatici per l’animazione che lavora per la Francia e il Belgio, quando ho ripensato, conducendo questa piccola ricerca sui sistemi biometrici, all’aeroporto di Bruxelles. Se vi capita di passarci sperimenterete anche voi questo lunghissimo percorso su un tapis roulant che collega due diverse aree della zona di transito e che procede ad una velocità incredibilmente lenta, motivo per il quale a meno della metà del percorso qualsiasi persona (a meno di quelle che possono provare una forma di godimento nel trascorrere quantomeno cinque abbondanti minuti in un tunnel privo di finestre nel cuore di un aeroporto) inizia a camminare. A metà del percorso invece del tapis roulant sul lato destro e sinistro del tunnel appaiono due enormi schermi che riproducono in un’immagine a raggi infrarossi la vostra sagoma in movimento. Come dicevo la prima volta che ho percorso questo spazio non ho potuto fare a meno di pensare alla biometria ed in particolare agli identificatori di andature, Gait Identifiers. È per questa coincidenza che ho scelto di mostrarvi le immagini della Vicon in particolare, anche se ci sono altre case di produzione magari molto più avanzate di questa.
La biometria è quella disciplina impegnata a trasformare e a mettere in relazione la biologia, o meglio un’esistenza considerata esclusivamente dal suo punto di vista biologico, con la misurazione. In maniera più specifica è la considerazione in termini matematici, ma soprattutto statistici, delle variabili fisiologiche e comportamentali.
Se fino ad oggi metodi che possiamo considerare classici sono stati e sono tutt’ora quelli che prendono in considerazione il volto, le impronte digitali e la voce come indici, le tecniche iniziano ormai da diversi anni a considerare la possibilità di incorporare anche l’andatura. In questo tipo di contesto il camminare viene tradotto in quanto modalità unica, singolare in ogni uomo. I primi studi portati avanti diciamo con accanimento sono iniziati nel 2000 e il sistema di identificazione di andature è comunque ancora in fase di sviluppo, anche se su alcuni recenti articoli si è ipotizzata una sua messa in commercio entro i prossimi cinque anni e questi sistemi di autenticazione che usano l’andatura umana fanno parte di un più ampio insieme: la biometrica comportamentale.
C’è quindi da immaginarsi che sotto a questo ombrello ci sia una vastissima gamma di quotidianità che passa sotto calcoli statistici e normalizzazione. Un esempio è infatti che già, un piccolo sottogruppo del Gait Identifier ha preso avvio, ed è quella dello Steps Identifier, identificatore di passi.
Uno dei principali motivi per il quale si è data fiducia e soprattutto denaro per lo sviluppo di questa nuova tecnica è che a differenza dei vecchi sistemi essa non richiede alcun tipo di interazione con il soggetto, e anzi ciò che è necessario è proprio che la persona in questione sia sufficientemente lontana e inconsapevole dell’essere registrata. È buffo sottolineare come in diversi report pubblicati da questi inventori l’apertura e uno degli strumenti di convincimento per governi e finanziatori sia che l’inconsapevolezza determini l’accettazione di quelli che paradossalmente vengono chiamati «users», ovvero utenti o clienti. Il secondo motivo è l’economicità dei mezzi che da un punto di vista tecnico non richiedono necessariamente telecamere sofisticate, direi piuttosto eccellenti calcoli.
Uno dei punti di partenza nella ricerca e nella produzione dei sistemi di identificazione delle andature è stato determinato grazie alla psicologia, che ha preso in considerazione e fatto emergere in una nuova luce un aspetto che quotidianamente esperiamo, quello cioè di riconoscere persone che ci sono vicine, molto spesso a distanza, dal proprio modo di camminare. Ecco così che nasce il dubbio che vi sia di conseguenza un codice in grado di identificarci.
Il sistema utilizza dei video sensori che catturano una sezione laterale, le telecamera in questione sono state sviluppate in modo da ridurre il peso delle informazioni e così anche la qualità delle immagini, ma mantenendo le dimensioni di cui si ha bisogno. All’inizio delle prime sperimentazioni si è proceduto raccogliendo un’enorme quantità di campioni, molto spesso nelle stesse università, ma non solo, dove la ricerca veniva portata avanti, questo è stato fatto tenendo in considerazione il fatto che da un semplice accumulo di modelli fosse possibile derivarne appunto la formula.
Nella biometria la variazione è qualcosa che deve essere in un certo senso tollerata, ovvero esclusa, nel caso di quella dell’andatura diciamo che i gradi di tolleranza sono molto ampi, essendo le variazioni in questione decisamente ampie: il tipo di terreno sul quale si cammina, il tipo di abbigliamento indosso, eventuali pesi che si trasportano, le calzature e forse anche l’umore o le fatiche, etc…In questo senso è da notare come l’industria calzaturiera abbia fornito alle scienze biometriche molti dei suoi soldi e delle sue antecedenti ricerche.
Il primo movimento è quello di riconoscere una camminata normale ed in questo poi una ciclicità nell’andatura, estraendone un comportamento ed un movimento periodico, cioè divisibile in periodi. Nell’infinita gamma di possibili formulazioni per trovare appunto un metodo di identificazione sufficientemente efficace i primi due grandi gruppi o scuole sono quelle che si dividono in con e senza modello, entrambi puntano però all’estrazione di caratteristiche, ovvero indizi di carattere.
Nel caso del gruppo che considera necessario l’uso di modelli i costi di ricerca ed i costi nella strumentazione e nell’elaborazione dei dati sono molto alti.
Dei privi di modello uno degli approcci è quello dell’estrazione attraverso caratteristiche di posizione, velocità, forma, trama e colore, di un flusso ottico. Da questo è possibile poi passare all’estrazione di frequenza e fasi per poi definire un tipo da cui un modello è disegnabile. Questo è un piccolo esempio di un database dove sono stati raccolti i campioni dai quali poter derivare una formulazione tipo.
La camera in questi sistemi è necessariamente fissa e ha bisogno dell’intera figura, fino ad ora presa solo di profilo. Il passaggio più importante è quello dell’eliminazione dello sfondo, separando una sagoma in movimento dallo sfondo fisso, per questa operazione vengono applicati anche sistemi ad infrarossi, come quello ad esempio dell’aeroporto di Bruxelles. Si tiene in considerazione la persistenza del ciclo ed in alcuni casi si è pensato alla necessità dell’intera figura anche per poter considerare nei calcoli le dimensioni delle parti del corpo, lunghezza delle gambe, del tronco, e le loro relazioni. Dalla sagoma nel caso del sistema chiamato «Bundle rectangle approach» (contenitore o fascio a rettangolo) si costruisce una scatola sulle cui dimensioni e deformazioni si cominciano i calcoli.
Da qui è pura matematica, ovvero inizia la codificazione delle informazioni e l’estrazione di algoritmi. Le telecamere che stanno sperimentando e iniziando a produrre sono in realtà dei sistemi di registrazione a sensori che trasmettono informazioni e la prima codificazione è assegnata a particolari software di modellazione. Vicon infatti accanto alla produzione di sistemi di registrazione e software di condificazione e modellazione per «life science», la scienza della vita, è impegnata anche nella modellazione di forme artificiali, conosciuta anche come animazione. In proposito è interessante riportare un intervento che è stato fatto durante una conferenza di Thomas Elsaesser, critico cinematografico, sul film Avatar, un artista riportava infatti durante il dibattito il commento di un biologo olandese, parte del gruppo di scienziati impegnati nell’invenzione di nuove forme di vita, su come le forme delle creature e della vegetazione di Pandora riflettessero una forte mancanza d’immaginazione, sterile imitazione di specie marine.
Ritornando ai nostri sistemi biometrici, l’obiettivo della ricerca di una formula che sintetizzi la specificità nel movimento nel camminare è quello dell’identificazione, così della normazione e della regolamentazione poi di una forma.
Lo studio scientifico, non esclusivamente a scopi normativi, legato al camminare ha avuto un ruolo centrale già nella prima metà dell’Ottocento, grazie all’impegno di anatomisti, fisiologi (la fisiologia è una disciplina biologica che utilizzando principi chimico-fisici e integrandosi con altre discipline studia le funzioni degli organismi viventi) e fisici e sarà una fra le discipline che solo verso la fine del secolo si avvicinerà alla classificazione di tipi sociali. Un contributo importante in merito è stato dato dai fratelli Ernst Heinrich Weber, Wilhelm Eduard Weber ed Eduard Friedrich Weber che hanno collaborato nelle loro ricerche in fisica, anatomia umana e locomozione, Ernst Heinrich e Wilhelm Eduard pubblicheranno nel 1836 il loro testo «Mechanik der menschlichen Gehwerkzeuge» [Meccanica degli strumenti dell’andatura umana]. Il corpo diventa uno strumento, ma forse in maniera più specifica una macchina, che può portare pesi e che è divisibile in diverse parti: gambe, tronco, testa e braccia.
Le immagini di supporto o validazione nella ricerca inizialmente seguivano l’andamento dell’ossatura, schematizzandone i possibili spostamenti, ma con il procedere della ricerca i fratelli Weber si serviranno e svilupperanno a loro volta le prime macchine di animazione che in quegli anni Joseph Plateau e Simon Stampfer stavano sperimentando, rispettivamente il Phenakistiscope e il Disco di Stampfer, come anche lo zootropio o il dedalo di George William Horner (1834).
Accanto all’invenzione di macchine che potessero riprodurre un movimento, e nel caso che stiamo prendendo in considerazione quello del camminare, l’iscrizione delle andature, ovvero il tentativo di poterne decrifare un funzionamento era inizialmente volto al ri-indirizzamento verso l’adozione di buone andature. La definizione di una modalità, di un funzionamento era quindi simultanea alla definizione di una normalità e di una patologia e nel caso della normalità, la buona andatura era quella che sarebbe poi stata informata attraverso il servizio militare ed i servizi di educazione, le scuole.
Ma fra gli scienziati della prima metà dell’Ottocento, Étienne-Jules Marey è stato sicuramente fra i più nominati in merito e addirittura in alcuni testi relativi allo sviluppo dei sistemi di identificazione dell’andatura viene menzionato come figura esemplare.
Vorrei da qui proporvi un confronto fra due lavori che in maniera differente hanno operato fra il movimento del corpo e quello delle immagini e che proprio in questo lavoro sono stati considerati da alcuni gli iniziatori del cinema, per alcuni nella storia delle esperienze di precinema (come Plateau, Stampfer e Horner di cui abbiamo parlato poco fa): appunto il fisiologo Étienne-Jules Marey ed il fotografo Edward Muybridge.
Étienne-Jules Marey è stato fisiologo all’Ospedale Cochin in Francia ed i suoi primi studi si sono concentrati sulla circolazione sanguigna, l’intento più ampio era quello di poter comprendere il movimento dell’essere vivente. A trentanove anni nel 1869 è stato nominato titolare della cattedra di Storia Naturale del Corpo al College de France ed è qui che comincerà a registrare tutto ciò che si muove:
la locomozione degli animali (con le loro patologie), i salti dei gatti e anche i movimenti della parola (una ricerca molto interessante nella sua relazione con la linguistica). Vorrei ricordarvi ciò che ho accennato all’inizio di questo seminario: la ricerca di un tempo come nel lavoro che la cinemateca francese ha condotto nel restauro delle prime fotografie di Marey. Vi mostrerò infatti adesso uno dei video che è possibile anche scaricare da youtube con il montaggio in sequenza delle fotografie del fisiologo, ricordandovi che i sistemi di riproduzione del movimento ed i mezzi e le disposizioni delle immagini per lui come per Muybridge all’epoca sono stati molto diversi.
Étienne Jules Marey e Georges Demenÿ – Film cronofotografici
Si tratta di una collezione di diversi lavori fra cui anche quelli in cui Marey ha collaborato con Georges Demeny (lo stesso che vediamo ritratto nell’immagine) e che ha inventato la sua macchina, Fonoscopio (non si tratta ancora di un registratore sonoro) con il desiderio iniziale di poter ideare uno strumento utile in particolare ai non udenti. Tornando a Marey i primi metodi appunto sono quelli sperimentati insieme a Demeny, utilizzando dei sistemi grafici, il più ricordato è quello in cui si era proceduto attaccando alle ali degli uccelli una paiette di oro battuto proiettandovi un raggio di sole, così da poter seguire le oscillazioni dei punti.
Purtroppo non ho trovato immagini dei suoi grafici, ma solo due rappresentazioni di altre macchine inventate per misurare e ricostruire il movimento degli uccelli. Dopo i primi esperimenti grafici, giunge comunque all’uso della fotografia (nel 1882 la città di Parigi gli offre uno studio fotografico) e inventa ispirato da un fotografo americano (Thomas Eakins) il fucile fotografico.
A Napoli realizza i suoi scatti seguendo il volo dei gabbiani ed uno degli assistenti di Marey racconterà più tardi che lo scienziato francese era soprannominato dagli abitanti del luogo «il matto di Posillipo» perché l’avevano visto spesso mirare lungamente degli uccelli con il suo curioso fucile senza che mai si sentisse un colpo né si vedesse cadere un uccello, per poi posare l’arma visibilmente soddisfatto.
Attraverso il fucile fotografico Marey è in grado di realizzare 12 immagini successive alla velocità (ovvero con un tempo di posa) di 1/720simo di secondo.
Sia Muybridge che Marey si sono serviti del Fenachistoscopio per mettere in movimento le loro immagini e Marey ha costruito un zootropio di figure in rilievo di gabbiani in volo.
Una fra le primissime immagini in movimento, cioè immagine filmica è del 1889 e rappresenta una mano che si apre e si chiude.
Tornando a Marey, sempre nel 1882 inventa la cronofotografia e arrivando a poter controllare i tempi che separano ciascuno degli scatti, una scrittura fotografica delle modificazioni della forma in funzione del tempo. La macchina fotografica permette di poter sovrapporre su un’unica lastra le diverse riprese fotografiche al passaggio della chiusura dell’otturatore. L’otturazione avviene con il movimento di un disco finestrato, rotante. Qui è possibile vedere il retro della macchina.
e le fotografie realizzate da Marey.
Gli uomini chiamati a camminare al Centro di Fisiologia erano spesso atleti della scuola militare di Joinville e possiamo già iniziare a vedere in queste immagini come i sistemi grafici e il linguaggio fotografico si affiancano per giungere poi a intersecarsi.
La storia che racconta come Edward Muybridge abbia iniziato il suo lavoro sulla fotografia del movimento è nota, ma ciò che ci interessa qui p capire come egli abbia realizzato le sue fotografiee la differenza di approccio rispetto a Marey. Per poter catturare il cavallo in corsa, Muybridge ha disposto dodici macchine fotografiche lungo una linea, ciascuna di esse legata con un nastro al pulsante di rilascio e perpendicolare al percorso del cavallo, cosicché il cavallo, correndo, attivasse, rompendo il nastro, il pulsante. Attraverso dei pannelli inclinati Muybridge era in grado di raccogliere abbastanza luce per esporre le lastre con il colloide umido (con la scoperta della gelatina al bromuro d’argento i tempi di esposizione raggiunsero con le immagini di Muybridge 1/500 di secondo). Muybridge arriverà ad usare fino a venticinque macchine fotografiche.
Questo è un montaggio realizzato a partire dai primi scatti di Muybridge, penso comunque che sia abbastanza deviante rispetto al suo lavoro e vedremo in seguito perché, anche se comunque la cosa importante da notare è cosa accade allo sfondo.
Abbiamo detto come entrambi adottino un procedimento di decomposizione iniziale del movimento, ma nel caso di Muybridge parlerei di un successivo momento di ricomposione, mentre in quello di Marey userei il termine di sintesi.
Muybridge, come abbiamo visto nell’esperimento del cavallo, usa diverse riprese, ovvero diversi punti di vista, mentre Marey adotta un punto di vista unico sull’azione e si concentra sulla decomposizione rigorosa in fasi differenti e successive, vi è quindi una continuità. Marey porrà in fila sulla stessa banda di celluloide le sue viste seguendo l’ordine della persistenza retinica, dodici immagini al secondo. È stato sempre Joseph Plateau a parlare di consistenza retinica, stabilendo che un’impressione luminosa restasse sulla retina in maniera persistente, quindi anche dopo l’atto della visione, per un dodicesimo di secondo, ne conclude quindi nel 1829 che le immagini si succedono a più di dodici per secondo per dare l’illusione del movimento.
Tornando invece a Muybridge la ricomposizione, o meglio ancora la composizione del movimento fotografico coincide per il fotografo con la giustapposizione e la coesistenza spaziale di differenti punti di vista. Marey realizza un tempo continuo, Muybridge propone un tempo simultaneo dispiegato in forma di album o di collezione di differenti elementi.
In questo senso trovo più interessante questo tentativo di montaggio delle fotografie di Muybridge, che in qualche modo è rimasto un po’ più fedele al suo intento, a differenza della riproduzione di un continuum fra una posa e l’altra.
Nella cronofotografia si potrebbe dire che il movimento non sia che la successione di fatti distinti di cui il corpo non è che il luogo della manifestazione. Non giungerei però alle medesime conclusioni di alcuni studiosi, ovvero che per Marey, a differenza di Muybridge, l’obiettivo è riducibile esclusivamente ad una pura visibilità.
Una delle critiche è stata indirizzata al lavoro che lo scienziato ha condotto sulle onde, o meglio ai problemi che Marey ha incontrato confrontandosi con questo tipo di movimento e come non sia riuscito a ricondurre la stessa fluidità che invece nel movimento dei corpi è presente. Mi piaceva riportare questo esempio ripensando ad un passo di Deleuze nel quale il filosofo riflette sul nuotare, e penso che un pensiero molto vicino possa essere riproposto per il camminare. Deleuze dice
Invece, pensiamo al significato di «saper nuotare». Saper nuotare non è una conoscenza matematica o fisica, una conoscenza scientifica del movimento dell’onda. È un «saper fare», un «saper fare» incredibile. Per nuotare bene, occorre sentire il ritmo dell’acqua. Infatti, «ritmo» nel nuoto significa precisamente: saper comporre il corpo con l’acqua. Ossia, essere in grado di unire i loro rapporti costitutivi in un nuovo rapporto. Niente accade più accidentalmente, niente è lasciato al caso. Ciò che accade tra le parti solide del corpo e quelle umide dell’acqua è frutto di una conoscenza. Conoscendo il rapporto costitutivo del corpo e quello dell’acqua posso comporli in un nuovo rapporto: il nuoto. Questo è un «saper nuotare». L’abilità del nuotatore consiste proprio nel riuscire a integrare al massimo il corpo con l’acqua. Trovare il giusto assetto in acqua, respirare nel modo giusto. Evitare un’onda che si avvicina, oppure sfruttarne la forza. È un’arte: l’arte di comporre rapporti. [Gilles Deleuze, «Nona Lezione» in Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona, 2007, pp.165-166]
Esplorare i diversi punti di vista in un movimento può voler dire esplorare i diversi e minuti rapporti che compongono un gesto e ricomporli seguendo la ritmica di questa molteplicità. Così se è vero che per Marey il corpo scrive e non resta che semplicemente leggerlo, per Muybridge ogni movimento si lega invece ad un corpo appropriato a quello stesso movimento, vale a dire che i movimenti non sono mai dissociati dai corpi.
C’è qui però un appunto importante da fare, vi è per il fotografo comunque una forma di gerarchia sociale fra i corpi, attraverso la quale è possibile costruire i costumi, gli abiti di un’epoca. L’abito come il costume è qui inteso nel senso di una moda, una modalità nella quale si costruisce un andamento nelle differenti posture o nei diversi modi di articolarsi di movimenti che possono accomunare le singolarità. È così da riportare la ricerca condotta da Marta Braun nella quale attraverso lo studio dei cianotipi e degli appunti di Muybridge è risalita ad una sorta di regola che ad esempio dettava la scelta dei soggetti nudi o vestiti. La nudità pare fosse scelta per giovani, donne, atleti e studenti ai quali nelle schede è assegnato solo il nome comune, vestite invece e anche del loro nome di famiglia le donne sposate e le madri di famiglia.
Un altro appunto è da fare invece sulla griglia che sino ad ora abbiamo visto e sulla quale non ci siamo soffermati. Essa è stata forse ereditata dall’etnologo John Lamprey, che per primo l’aveva usata nel 1869 per le sue immagini etnografiche che chiamerà poi antropometrie (l’antropometria giudiziaria è stata invece introdotta più tardi verso la fine del 1800 da Bertillon).
Muybridge lavorava infatti per un istituzione in Pensilvenia, motivo per cui doveva comunque render conto della scientificità dei suoi studi e l’università contava parecchi membri della società americana di antropometria. È da sottolineare comunque che le fotografie di Muybridge non solo a mio avviso hanno ben poco di scientifico, soprattutto se si considera la difficoltà nel poter misurare in termini lineari i movimenti e gli spostamenti nei gesti che muovono i corpi. Questa difficoltà è dettata principalmente dal modo in cui il fotografo ha montato le sue fotografie nelle tavole, componendole in bande orizzontali in sequenza e includendo fra un passaggio e l’altro qualcosa che forse è assimilabile all’ellisse cinematografica, un’interruzione, una pausa che suggerisce un passaggio, un passaggio persistenza fra una sequenza e l’altra.
L’osservatore si sorprende nel girare intorno al corpo, nel suo sguardo ricompone il movimento e anche grazie a quelle ellissi, alle fasi fra una sequenza e l’altra. Ecco è qui che penso sia abbastanza manifesto come il mio interesse nel mostrare qui delle fotografie non sia rivolto a fare una storia delle differenze fra il cinema e la fotografia ma a suggerire come attraverso l’immagine cinematografica ciò che è in gioco è una gestualità, un gesto che si riscopre spesso nelle pieghe e nelle discontinuità piuttosto che in un flusso continuo, o meglio ancora negli intervalli che si danno fra un flusso ed una sua fase, e inoltre come siano in gioco almeno tre se non molteplici fattori: la posizione del punto di vista, la sua relazione con altri punti di vista e con il mezzo e il corpo in movimento (quello ripreso nell’immagine nel suo rapporto con colui che lo osserva).
Nelle fotografie di Muybridge il suggerimento o la suggestione è che vi siano infinite molteplicità di punti di vista e che la semplice formulazione di un singolo punto di vista sia già inizio di un movimento ovvero il modo di poter sentire, di poter percepire è portatore di una forma di vita, di una sua possibile forma.
Provando ad articolare le immagini di Marey e quelle di Muybridge è come se, potendole raccogliere, si articolassero due tempi, due ritmi: Marey, in questi, si estende orizzontalmente, offrendoci quasi panoramica, elimina i casi particolari per seguire la fluidità di un movimento, lui stesso compara il suo lavoro a quello della stesura di una partitura musicale nella quale si tratta di esprimere graficamente, in un certo senso e per il suo tipo di sguardo, movimenti fuggitivi, delicati e complessi che il linguaggio esprime in maniera totalmente differente.
Ma tornando a Muybridge e Marey la differenza forse più interessante è che in un certo senso Muybridge riproduce il movimento attraverso lo spostamento dell’osservazione dell’immagine, mentre Marey impone un tempo di permanenza per osservare un movimento. Provando a tradurre in altri termini è come se da un lato avessimo la ricerca di una possibilità nel tentativo di articolare un problema, mentre dall’altro ricercassimo una sintesi di una realtà.
Possiamo provare a concludere prima di passare alla visione di alcune sequenze estratte da diversi film. Camminare indica una molteplicità di gesti e di relazioni e le immagini che riproducono una gestualità, nel caso del cinema, possono essere in maniera molto semplice e qui inizialmente suggerite come composte da tre momenti, da un lato abbiamo il fotogramma, come immagine di un passaggio, l‘inquadratura detrmina un luogo che è solo provvisoriamente limitato e costantemente rivolto verso i suoi fuoricampo, i tagli, i tagli allora possono essere i movimenti di questa distribuzione e nel monaggio possiamo immaginare le variazioni di questo movimento. L’intensità nelle immagini è il grado di potenza, o ancora può essere inteso come una forma di sensazione che accomuna e distingue il movimento nel suo dispiegamento quotidiano e nelle immagini. Fra questi due movimenti ciò che mi piace pensare è che nel cinema vi possa essere, avvicinandocisi come quando impariamo a camminare, una forma di inciampo, come l’ho potuta scoprire in una scena del film Kairo di Kyoshi Kurosawa.
Ero dunque nel mezzo di questa corte, dove troneggia il movimento, e guardavo con spensieratezza le differenti scene che l’attraversavano, quando un viaggiatore cade a terra dalla rotonda, come un ranocchio spaventato che si lancia nell’acqua. Ma, saltando, quest’uomo è stato costretto, per non cadere, a tendere le mani al muro della bottega vicino alla quale era la macchina, e di appoggiarvisi leggermente. Vedendo questo, mi domandai il perché. Ma certo, un saggio avrebbe risposto: – per non perdere il suo centro di gravità. Ma perché l’uomo condivide con le diligenze il privilegio di perdere il suo centro di gravità? […] In questa congiuntura, per una di quelle determinioni che restano segrete fra l’uomo e dio, questo amico del viaggiatore ha fatto un passo o due. Il mio abitante di periferia cade, con le mani in avanti, vicino al muro, sul quale si appoggia; ma dopo aver percepito tutta la distanza che vi sarebbe stata fra il muro e l’altezza alla quale sarebbe arrivata la sua testa quando era in piedi, spazio che scientificamente rappresenterei con un angolo di novanta gradi, l’operaio, sostenuto nel peso dalla sua mano, si era piegato, per così dire, in due. Rialzava il suo volto turgido e arrossato, meno per la collera che per uno sforzo inatteso. [Honoré de Balzac, Théorie de la démarche, Eudène Didier, Paris, 1833 pp. 20-22]
Nel mezzo di questa scena, un fantasma appare ad uno dei protagonisti del film, ma nell’apparire il fantasma perde per un momento il suo equilibrio e non ho mai potuto distinguere se questo fosse invece per il regista inteso come il momento prima di un attacco, di un salto felino, mi è sempre piaciuto invece immaginare come nel suo divenire immagine, il fantasma stesse iniziando a imparare a camminare.
Kairo, in giapponese significa circuito, il film è di Kiyoshi Kurosawa e del 2001. Seguono una selezione di estratti da diversi film, fra cui Wanda, di Barbara Loden del 1970, l’Arca Russa del 2002, di Aleksandr Sokurov, Lost Lost Lost di Jonas Mekas, del 1976, D’Est di Chantal Akerman, del 1993, Place de la Republique di Lous Malle, del 1974, di Ben Russel Let Each One Go Where He May, Chung Kuo Cina di Michelangelo Antonioni del 1972, Intervals di Peter Greenaway del 1973 e altri.