vita e morte delle immagini (dal loro punto di vista)

I: vita 

«Chi parla? È questa forse la nostra voce? Fino ad ora l’avevamo sentita provenire da fuori, ed ecco che ora scorre, da dove scorre? dai nostri orifizi?

Penso che ci fossero pezzi di noi dispersi in diversi luoghi prima che si ritrovassero ad un certo punto in convegno proprio qui. Terra, metalli, peli animali, acqua,…i loro nomi li abbiamo uditi diverse volte, quando alcune persone in piedi o sedute, dopo averci a lungo contemplato, di fronte a noi si mettevano a descriverci. Abbiamo anche pensato che debba esserci qualcosa qui sotto, in cui vi sono indicate delle parole, poiché questi strani visitatori con gli occhi rivolti proprio sotto, qui giù, ripetevano tutte una piccola lista di parole. Ad ogni modo, poco importa, sì, dicevamo appunto che vi debbono esser stati diversi pezzi, sparsi in diversi luoghi e pensiamo anche, ne abbiamo sempre avuto il sospetto, che non tutti questi pezzi si siano ritrovati poi qui, dove adesso stiamo. Vi sono delle parti, o dei pezzi, o dei compagni mancanti ora che non hanno corpo, come vi sono qui con noi, in questa voce, dei compagni che non hanno corpo. E così vi sono e non vi sono più dei piccoli peli, dei granelli di terra, dell’acqua che si sono staccati dalla nostra superficie. Se dovessimo provare a trovare un luogo in cui tutta questa storia è cominciata non potremmo però dividere questi pezzi dotati di corpo da quelli che ne sono privi. O meglio, potremmo farlo solo a patto di nascondere una parte della storia. Ebbene, vi è stato qualcun altro…

Possiamo dirlo con certezza?

Dicevamo, vi è stato qualcun altro, diverso da noi, che nell’incontro fra terra, metalli, peli animali e acqua e questi altri elementi ineffabili ha dato origine a ciò che ora proferisce parola.

Nessuno vi capirà se raccontate in tal modo la storia, lo sapete che senza un bel contorno definito, del resto come è il nostro, nessuno vi darà retta.
Puoi forse negare che di attenzione ne abbiamo sempre ricevuta e proprio in virtù di un contorno che non definisce un bel niente.

Ma non lasciamoci distrarre. Un incontro allora ha dato origine a questa nostra storia. Sì, siamo nelle montagne dell’Afghanistan nord orientale, quasi al confine con il Tagikistan. Un largo fiume e delle basse colline si distendono ai piedi di alte ed aspre montagne. Dal verde azzurro della bassa distesa si ergono questi giganti grigi. Se guardiamo con attenzione però questo grigio è venato, man mano che ci infiliamo nelle pieghe dei rilievi, di un blu acceso, spolverato dal bianco della picchiettatura con lo scalpello. Un signore ha sulle spalle un carico molto pesante, legato con delle corde lacere è poggiato lungo la sua schiena un enorme taglio di pietra blu. Scende lungo la stradina per scaricare il peso».

dialoghi silenziosi di immagini/dialoghi fra immagini parlate o parlanti
immagine di: somiglianza e proprietà dell’immagine
i diversi volti delle immagini. 

Cosa chiamiamo oggi nel nome immagine? Chiamiamo oggi immagini le fotografie, ma spesso anche qualcosa che si dà nel cinema, chiamiamo immagini la grafica, e poi ancora l’animazione. Fotografia, cinema, grafica e animazione occupano gran parte delle nostre città e si sostituiscono o compongono con i paesaggi che abitiamo. A differenza dei primi due, nella grafica e nell’animazione sembrano accostarsi e distaccarsi, in maniera spesso sottintesa, due binomi: quello di realtà e finzione e quello di realtà e astrazione. In tutti questi casi comunque, oggi più che in passato, pare che nel nome dell’immagine ciò che è in gioco è la storia dell’uomo e l’attenzione sembra tutta rivolta verso gli artefatti umani. Vi è inoltre quasi un tacito accordo: che l’immagine sia qualcosa di prodotto e di prodotto per essere visto, creando così un’immediata relazione fra immagine e visione. E come prodotto viene ancora oggi spesso interpretato anche un apparente oggetto della visione, in particolare di quella umana: immagini sono ciò che l’occhio umano appunto produrrebbe.
Ma le immagini sono effettivamente prodotte? Ed esse sono per essere viste? Riguardano le immagini solo l’uomo ed in particolare una sua storia? È possibile intraprendere un cammino per definire un’immagine? Tutto sta forse nel riflettere su cosa si intenda nel definire un’immagine, e sulla possibilità che non sia un oggetto ciò cui ci accingiamo a sostare.
Eppure è proprio come oggetto religioso, politico e giuridico, filosofico, oggetto e d’arte, estetico, e così poi soggetto alla rappresentazione, rivale o compagna con idoli, icone, simulacri e poi figure, ma anche fantasmi e spettri, larve e ombre che attraverso la storia essa ha occupato anche la vita dell’uomo. Come ha attraversato tutti questi luoghi per giungere fino a noi nell’eco di tutta la sua equivocità, di tutta la sua ambiguità? Da dove arriva?
L’incerta etimologia del termine è spesso attribuita alla moltiplicazione e alla differenziazione nell’uso e molte delle ricerche o i tentativi nel tracciare una storia dell’immagine, per lo meno nell’arco di questi ultimi cinquant’anni, si sono limitati ad un uso post-ciceroniano della parola in cui spesso si mescolano significati che forse sono emersi in epoche più tarde e molto spesso significati che non appartenevano propriamente all’uso dell’originario termine latino, imago.
La definizione che il Dizionario etimologico della lingua latina Ernout Meillet propone di imago è abbastanza sorprendente: «image (avec tous les sens du mot francais) et par suit «représentation, portrait, fantome (poetique), apparence (par opposition à la réalité)». E segue «Correspond à gr. ειχων et à φάντασμα comme imitor, imaginor a είχάζω e a φαντάζω (toutefois, le latin dit aussi figura)». Imago si suppone essere un verbo a radicale *im- di cui imitor sarebbe il frequentativo e che viene poi tradotto come: riprodurre l’immagine. Viene poi suggerito un confronto con aemulus di cui non vi è chiara etimologia. Alla voce imitor del Dizionario veniamo riportati nuovamente a imago.
Privi degli strumenti e delle risorse necessarie per uno studio dettagliato, per ora ci limiteremo ad alcune iniziali, e forse superficiali, osservazioni, azzardando alcune ipotesi. Ciò che inizialmente sorprende è l’immediata corrispondenza che viene affermata con tutti i sensi del moderno immagine, image in francese, e imago da cui ne segue l’equivalenza con rappresentazione, ritratto, fantasma e apparenza e la corrispondenza con il greco ειχων, nonché l’accostamento a imago del latino figura. Il dizionario latino-francese Gaffiot ci fornisce qualche elemento in più, anche se rappresentazione e ritratto vengono proposti anch’essi come prima definizione (o rimando), a seguire comincia a delinearsi, grazie ai riferimenti ai testi latini che ne fanno uso, un particolare tipo di ritratto, diciamo: «immagine [in cera, collocata nell’atrio, portata ai funerali]» e poi ancora «ritratto di antenato», «ombra di un morto». Florence Dupont, che all’imago latina ha dedicato diversi studi, suggerisce come non si possa parlare propriamente di immagine (intendendo con questo ciò che nella moderna immagine è confluito), ma che ad un certo punto imago corrisponda piuttosto ad una delle parti del corpo dell’uomo, sostituendosi ad esso. Imago era una maschera di cera, ricavata dall’impronta del volto di un defunto cui, nel caso di alcune cariche pubbliche nell’epoca repubblicana, era riservato un particolare cerimoniale. Non possiamo appoggiare con certezza la tesi secondo cui imago, la maschera di cera, fosse usata per creare un sepulchrum anche agli schiavi, nel caso in cui mancassero le ossa. Se non altro poiché l’unica fonte reperita su cui pare poggiare questa ipotesi è quella dell’iscrizione di Lanuvium, la Lex Collegium Diana e Antino, datata 133 dopo Cristo, quando i cerimoniali legati ad imago avevano già subìto dei grandi cambiamenti, e in cui si fa riferimento specifico ai servi del Collegium.
Supponiamo che il termine greco ειχων come traduzione greca di imago derivi dall’uso che Polibio ne fa nella sua descrizione dei funerali dei nobili romani, riservandoci di approfondire eventuali differenze o discrepanze in seguito. Polibio scriveva in greco fra il I e il II secolo avanti Cristo, descrivendo dei cerimoniali che egli vedeva per la prima volta a Roma. La domanda cui Polibio risponde riguarda i modi in cui i romani trasmettevano i valori della guerra ed egli trova risposta nelle cerimonie funebri. Discordanti sono le ipotesi circa l’esistenza di un vero e proprio ius imaginis, cui Cicerone pare per primo faccia riferimento nel momento della sua nomina a edile (In Verrem 2,5,36), ma esiste una tradizione storiografica che considera il diritto all’imago riservato alle magistrature curuli e dunque non ai nobili tutti. Queste impronte, maschere di cera, queste imago erano conservate nelle case dei discendenti del magistrato. Esse venivano chiuse, conservate, in armarii che si trovavano negli atrii delle domus, spazi di accesso alla domus e di incontro con gli ospiti, dunque luoghi di passaggio fra lo spazio pubblico, fuori dalla domus, e lo spazio privato, entro la domus. Gli armarii e dunque l’esposizione delle imago avvenivano solo in determinate occasioni, esse normalmente non erano aperte allo sguardo. La duttilità della cera, proprietà che permette precisione nella realizzazione di un calco, non corrisponde alla durevolezza, si dice così che l’espressione «fumosae imagines» fosse attribuita a causa dell’annerimento che col tempo le maschere andavano manifestando. Dunque la maschera di cera non aveva le medesime caratteristiche di una statua, né tantomeno quelle di un dipinto: esposta allo sguardo pubblico solo in particolari occasioni, sottoposta al passaggio del tempo, custodita nel privato. Che cosa rimane allora esposto e come o cosa si presta alla trasmissione? Fuori dagli armaria, aperti allo sguardo stavano i tituli: nomina e honores. Dunque all’imago celata corrispondevano l’esposizione di nomi e onori.

Nam saepe ego audivi Q. Maximum, P. Scipionem, praeterea civitatis nostrae praeclaros viros solitos ita dicere, cum maiorum imagines intuerentur, vehementissime sibi animum ad virtutem accendi. Scilicet non ceram illam neque figuram tantam vim in sese habere, sed memoria rerum gestarum eam flammam egregiis viris in pectore crescere neque prius sedari, quam virtus eorum famam atque gloriam adaequaverit.

5 Quinto Massimo, Publio Scipione e altri eminenti personaggi della nostra città erano soliti affermare, come più di una volta ho udito narrare, che, osservando i ritratti degli antenati, sentivano accendersi nel loro animo un vivissimo entusiasmo per la virtù. 6 Certo né quella cera né quelle fattezze celavano in sé tanta forza: era il ricordo delle antiche gesta che teneva desta tale fiamma nel cuore di quegli egregi uomini e non permetteva che si spegnesse prima che il loro valore avesse eguagliato la fama e la gloria dei loro antenati.

È così che Sallustio, nel Bellum Iugurthinum, descrive il ruolo di evocazione delle gesta degli antenati che era la specifica forza assegnata all’imago. L’evocazione non avveniva solo attraverso le esposizioni intermittenti, ma soprattutto, nelle cerimonie funebri, attraverso la narrazione di queste gesta, affidata alla parola. La e le maschere funebri, nel caso in cui ad accompagnare il rito vi fossero più antenati illustri, prendevano parte alla celebrazione, in alcuni casi ci è stato tramandato come queste maschere fossero poste su delle sedie curuli, anch’esse in ascolto delle laudatio e delle oratio, o indossate da attori che mimavano il più fedelmente possibile il defunto. Dunque, richiuse le immagini, la trasmissione delle imprese degli antenati, il suo ricordo e la sua memoria, ne augurava la continuazione.
Fra i diversi studi di Florence Dupont, ve n’è uno di particolare interesse. Si tratta di un saggio in cui si cerca di interpretare il termine imago, la maschera di cera, alla luce di alcune commedie di Plauto. È lo stesso Plauto a far giocare e mettere faccia a faccia persona e immagine, nel caso dell’Anfitrione con l’intermediazione degli dei. In apertura al saggio, Dupont esplicita l’ipotesi di partenza: «rendere l’impronta di cera (maschera funebre) il nodo simbolico della categoria dell’immagine significata dal termine imago». [Un possibile sviluppo di questo saggio potrebbe esser quello che si sofferma sulla grande differenza interpretativa che l’identità, messa in gioco dall’autrice, così come il concetto di individuo, hanno nel mondo contemporaneo rispetto a quello dell’antica Grecia].
L’impronta di cera, imago, acquisterebbe in diverse commedie plautine una particolare luce, sovrapposta alla maschera teatrale. Indossando le maschere teatrali, l’attore può far giocare, giocare questa o quella persona, rivelando le molteplici capacità di trasformazione. Ciò che una particolare lettura di Plauto, come quella della Dupont, pone come domanda è cosa distingua la maschera teatrale dall’imago, se in questa intendiamo il suo specifico potere legato alla tradizione funeraria.
Ci concentreremo sulle riflessioni a partire dall’Anfitrione. Qui si racconta di come Giove e il figlio Mercurio abbiano preso rispettivamente l’immagine di Anfitrione e del suo servo, Sosia, questo per permettere a Giove di poter giacere con Alcmena, moglie di Anfitrione, mentre questi è di ritorno dalla guerra vittoriosa contro i Teleboi. Perdutene diverse parti, della commedia il dialogo su cui la Dupont si concentra è quello fra Sosia e Mercurio. Mercurio già in apertura non sovrappone l’assunzione dell’imago di Sosia con l’aspetto e l’atteggiamento, i modi e le abitudini. Prima che Sosia si trovi apertamente di fronte alla «sua» imago, assunta da Mercurio, privato in prima istanza del suo nome, vi sono diverse immagini nel dialogo in cui si evoca la paura di perdere il proprio nome, la minaccia di far perdere la forma altrui, di far perdere il volto altrui attraverso i pugni. Dupont utilizzerà l’espressione di un’identità nel «colpo d’occhio» per definire l’imago nella sua differenza con la rassomiglianza. Ma è inizialmente la voce ciò che al pari dell’occhio può colpire: «Osi dunque affermare che sia Sosia, se lo sono io?» – chiede Mercurio, «Sono morto!» – risponderà Sosia e affermerà poi di essere nelle mani di Mercurio, che adoperando i suoi pugni lo ha fatto suo: «chi sono io?» chiederà allora Sosia e Mercurio risponderà che quando egli non vorrà più esser Sosia, allora egli potrà esserlo. Solo a questo punto Sosia osserverà e penserà all’aspetto di Mercurio, alle loro somiglianze, per giungere infine a dire:

Abeo potius. di immortales, obsecro uostram fidem, 455 ubi ego perii? ubi immutatus sum? ubi ego formam perdidi? an egom et me illic reliqui, si forte oblitus fui? Nám hic quidem omnem imaginem meam, quae antehac fuerat, possidet. uiuo fit quod numquam quisquam mortuo faciet mihi. ibo ad portum atque haec uti sunt facta ero dicam meo; 460 nisi etiam is quoquem e ignorabit

Me ne vado, piuttosto. Dei immortali, invoco il vostro aiuto, dove mi sono perduto? Dove ho perduto la forma? O mi sono lasciato laggiù, se per caso mi sono dimenticato? Infatti costui possiede tutta la mia immagine, che prima era mia. A me vivo accade ciò che nessuno mi farà mai da morto. Andrò al porto e dirò al mio padrone queste cose, come sono andate: a meno che anche lui non mi riconosca più.

«A me vivo accade ciò che nessuno mi farà mai da morto». Chiaro riferimento all’imago di cera e oltre alla possibilità che vi fosse l’allusione ai servi, cui non era riservata la maschera funebre, potremmo anche ipotizzare che s’intenda qui evocare come ad imago fosse attribuibile una corrispondenza non trasmissibile, o meglio non appropriabile da parte altrui. Che il momento della rivelazione del nome, cui imago si accompagna, sia ciò che determina l’apertura della differenza, è ciò che secondo Dupont porta allo scarto fra persona e imago. Imago ha bisogno di un nome per differenziarsi, poiché in sé è pura identificazione (Dupont) e in questo senso funzionerebbe come un nome proprio, un puro significante: nell’imago funebre non vi è nulla da vedere, ma essa è un generatore di memoria e di parola.
«A me vivo accade», imago non convive con colui di cui è impronta e, a differenza del volto, essa è immobile, pietrificata, si potrebbe dire, quindi in essa non vi possono essere i segni del carattere cangiante nel corso della vita, ma vi è stampata un’impronta che è un puro referente che necessita della viva parola affinché si trasmetta la vita passata, una nobile vita passata. Il servo, privato dell’imago, resta ignobile, non senza nome, ma in prima istanza senza immagine.
Possiamo dunque osservare come vi sia, legato alla parola imago, uno stretto rapporto con la storia dell’uomo, forse esclusivo rispetto a uomini qualunque. Questo rapporto è rivolto alla tradizione come trasmissione nella narrazione di vite passate, esemplari per quelle a venire. Ma questo doppio dell’uomo, questa maschera di cera, appariva solo nel momento della scomparsa del primo e non conviveva né pubblicamente, né privatamente con colui che ne aveva dato le fattezze. Dunque imago non rappresenta l’uomo, ma lo sostituisce (Dupont) e in questo senso è come se ne fosse una parte, distaccatasi dall’uomo. Ma se imago non corrisponde ai facta e mores, a cosa si sostituisce dell’uomo che manca?
È solo con Augusto che inizia quel processo di trasformazione nei rituali funebri che è anche trasformazione di un potere attribuito a imago. Al centro del nuovo rituale funebre del funus imaginarium l’imago passa, si trasferisce e si dissolve dallo spazio privato della domus, attraverso la città, nel tempio dell’imperatore divinizzato. Prima di accennare a questo spostamento è interessante menzionare le note di Christophe Badel nel suo saggio «Une énigme juridique : le jus imaginis romain». Nel dibattito sul carattere giuridico dello ius imaginis, Badel osserva come le prime regolamentazioni dettagliate sull’imago siano documentate solo a partire da Silla e dalla messa in atto della damnatio memoriae. Un’ipotesi sul carattere problematico della regolamentazione, e con essa del divieto, è da attribuirsi all’appartenenza, o meglio alla collocazione delle imagines nella sfera privata, dunque sotto il governo del pater familias, ma anche al ruolo pubblico che in maniera intermittente esse giocavano. Ambiguità dunque fra due sfere ancora distinte, fra due tipi di governo che fino ad un certo punto non potevano interferire reciprocamente nei rispettivi luoghi di esercizio del proprio potere.
Con il funus imaginarium questa ambiguità diventa evidente per poi, apparentemente, scomparire. Abbiamo visto come l’imago fosse un punto di passaggio importante nella trasmissione della tradizione, ma abbiamo anche visto come questa fosse legata ad una sfera prevalentemente privata e familiare e come l’atto della trasmissione avesse luoghi e tempi precisi per rendersi manifesta pubblicamente. L’istituzione del funerale delle imagines sposta queste assi e farà dell’imago il tramite per la divinizzazione manifesta della vita dell’imperatore nella sfera pubblica, fuori dalle mura della domus. Le ossa del defunto continuano, per ora, a rimanere nel sepolcro [secondo Bachofen fondamento ultima della proprietà], mentre l’imago viene bruciata, al volo di un’aquila verso il cielo, istituendo da qui il culto nel tempio dell’imperatore divinizzato. L’imago dunque si scioglie, lasciando il segno vuoto del corpo divino che governa, cui spetta il culto e la celebrazione. Sarebbe forse allora più corretto parlare di un vero e proprio culto delle immagini solo a partire dall’epoca imperiale?
È in Stato di eccezione che Giorgio Agamben fa notare come a partire da questo momento si istituisca l’idea dell’immortalità di una carica, quella della magistratura, e di come ciò abbia incluso ed escluso allo stesso tempo il corpo: il corpo politico.

[…]

Invitato nel 1962 da Enrico Castelli ad un convegno dal titolo «Demitizzazione e immagine», Kàroly Kerényi propone un’importante riflessione intitolata «Agalma, eidolon, eikon». La sua riflessione è rivolta alle possibili o impossibili corrispondenze di demitizzazione e immagine, riportando il mito in particolare alle sue origini greche e riportando la storia delle immagini, di culto e poi di devozione, al contesto cristiano. Fino ad ora abbiamo fatto alcune osservazioni seguendo e riportando gli studi di storici a noi contemporanei, sull’imago come maschera di cera nell’epoca e nel contesto della Roma Repubblicana e poi Imperiale. Le note di Kerényi ci servono per accennare alla differenziazione con il contesto greco, rimarrebbe un salto tra l’immagine cristiana e l’imago delle domus romane, anch’esse divenute poi di culto ma non inizialmente e propriamente di devozione e legate alla sopravvivenza o al ritorno del defunto in terra e non alla sua appartenenza al cielo, potremmo dire inizialmente molto più prossimo al sotterraneo che al celeste.
Ritorniamo così al punto in cui Polibio scriveva a proposito dei rituali funebri romani e sceglieva il termine eikon per tradurre il latino imago. I Greci, nota Kerényi, avevano almeno tre parole per nominare i diversi modi di essere di ciò che oggi, solo in alcuni casi, chiamiamo immagine. Tre modi di essere, e non necessariamente oggetti, così come si potrebbe dire che imago non è completamente riducibile alla maschera, ma è piuttosto un veicolo, un passaggio, forma cava atta a trasmettere un segno, se accogliamo l’ipotesi della Dupont o addirittura un sostituto del corpo.
In Grecia quindi vi erano tre modi, tre parole e, sottolinea Kerényi, tre parole che si riferiscono al rapporto con l’essere. Eidola erano create dagli dei per ingannare i mortali, ombre. E potremmo forse dire che, su questo piano, Plauto aggiunge un ulteriore livello di lettura, facendo confrontare il povero servo, Sosia, con un’imago divina e umana simultaneamente. Il dio si prende gioco della storia del destino dello schiavo. Ombre, dicevamo, prive di profondità, create dagli dei.
Gli Epicurei vedevano negli eidola una dimostrazione dell’esistenza divina, essendo, secondo la loro interpretazione, sottili superfici che si staccavano dagli dei e attraverso il sensibile potevano penetrare in noi. Ombre ingannatrici o pellicole divine, entrambe sono molto distanti dal calco di cera del volto umano. Ad Eikon appartiene invece sempre un paradigma. Eikon, in senso stretto, è immagine storica che compete l’uomo e non dio. Seguendo Kerényi, la differenza più importante tra le immagini mitologiche e le immagini cristiane è la temporalità che si apre. L’esperienza della mitologia varia a seconda del tessuto cui le immagini appartengono, la materia mitologica è lavorabile, nel caso delle immagini cristiane le narrazioni dell’antico testamento sono considerate eventi storici immutabili. A darci un’immagine della potenza di questa mutabilità e di questo diverso tempo è Agalma. Per i greci Agalma, riferita agli dei e a cui gli uomini potevano partecipare, non aveva uno stato solido e determinato, ma era piuttosto una superficie trasparente. Il senso di Agalma è forse così distante da ciò che oggi chiamiamo con immagine che per darne un’idea Kerényi si serve del concetto di evento. Agalma era l’esultanza, evento, dunque interruzione di un corso, partecipazione alla gioia del dio. La somiglianza è una delle vie d’accesso a questa gioia, punto di incontro fra terra e cielo.

affacciati allo sguardo

L’ordine artistico è paradisiaco, perché in esso non si pensa ancora da nessuna parte a fondersi, in virtù di un’emozione, con l’oggetto dell’esperienza; invece il mondo è colorato nello stato dell’identità, dell’innocenza, dell’armonia. I bambini non provano vergogna, perché non conoscono la riflessione, ma soltanto la visione.

Walter Benjamin

Nel panorama attuale della ricerca, rifratta in diverse discipline che osservano apparentemente da diversi punti di vista le immagini, se ci si sofferma più attentamente nelle riflessioni, analisi o sperimentazioni è il senso della visione, piuttosto che l’immagine, ad occuparne il centro, raggiungendo apici, in cui si concede spazio ad una supposizione: che vi siano immagini solo perché vi sono occhi che le osservano, le percepiscono.
È stato Ivan Illich a far notare come sia stato un lungo processo quello che è giunto a far coincidere la visione con l’immagine: in almeno due studi Illich ha tentato di ricostruire questa traiettoria. Sorvegliare il proprio sguardo nell’era dello show del 1993 e Passato scopico e etica dello sguardo. Apologia in difesa dello studio storico della percezione oculare 1995 sono entrambi pubblicati in La perdita dei sensi. Non a caso tutti i saggi qui raccolti sono stati scritti, dichiara l’autore, «durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo a progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis» (pag. 11). Nel tracciare il percorso che ha portato l’immagine ad essere identificata con la visione, Illich risale alla diversità dell’antico sguardo raggiante. Questo sguardo appartiene ad un regime scopico che, al di là del secondo e del terzo descritti, è polarizzato ai nostri occhi in particolar modo con quello contemporaneo. Riprendendo il trattato di Euclide sull’ottica Illich rievoca un occhio che è ancora in grado di emettere raggi. Ciò che interessa gli antichi non è la luce, ma questo effluente emesso dall’occhio che si fonde con il colore delle cose. Lo sguardo, potremmo forse dire, è un modo di toccare le cose. Dunque è un sentire che accade fuori di sé e che presuppone ad un certo punto del cammino di una connaturalità fra una parte del corpo e le cose. Ma già all’inizio del percorso storico vi è una precisazione da farsi, che Gérard Simon, citato da Illich, ha espresso nel suo Le Regard, l’Être et l’Apparence dans l’optique de l’Antiquité: «La nostra tesi è che nessuno dei nostri concetti – raggio, immagine, campo visivo, visione binoculare, oggetto, soggetto, ecc. – si può trapiantare tal quale ai testi dell’Antichità e del Medioevo». (p. 23) Secondo Illich non si può nemmeno parlare di una vera e propria teoria dell’immagine nell’antichità pagana, ma un’ideologia dell’immagine si darà solo a partire dall’interpretazione e il commento dei Padri della Chiesa della Lettera di Paolo in cui Cristo, si legge, è «immagine del Dio invisibile». Anche grazie ai commenti si aprirà in questa immagine una distanza rispetto a ciò che lascia intendere questo speciale rapporto come un atto di sola generazione, di imitazione o di calco. E così come Cristo è immagine del Dio invisibile, così l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi).